venerdì 11 dicembre 2015

lunedì 13 luglio 2015

Chi ha accoppato Jessica Fletcher?

Il silenzio è calato all'improvviso nella stanzetta che fino a poco fa ribolliva di flash, tecnici della scientifica, poliziotti e qualche giornalista intrufolatosi non si sa come e mandato via a calci nel sedere.
E questo non per la presenza dell'Ispettore, un omuncolo insignificante come si conviene in qualunque indagine mediatica che si rispetti.
Neanche per la bellissima poliziotta dai pantaloni attillati – sì, proprio quella lì, nell'angolo – che si è appena chinata a raccogliere una penna, alleviando le menti maschili dai foschi pensieri e trasferendoli all'istante in quelle femminili.
E nemmeno, ahimè, per la vecchina che giace a terra, cerea in volto, con la bocca spalancata e una pozza di sangue scuro tutto attorno.
Ogni rumore, infatti, si è spento all'ingresso nella stanza di un manipolo di persone, delle più disparate età ed etnie, tutte caratterizzate da uno sguardo acuto e un livello più o meno elevato di eccentricità.
Signori” esordisce l'Ispettore, a cui possiamo dare il significativo nome di Inetto. Ma dicevamo, “Signori” esordisce l'isp. Inetto, con voce piatta e nasale “Vi ho convocati tutti in questa stanza, luogo di un efferato crimine, perché...”
Perché siamo le menti più brillanti del pianeta” interloquisce un gentiluomo alto, dall'aria consapevolmente arrogante e una strana mantella verde a quadri, coordinata al cappellino. Suggella quell'umile dichiarazione sbuffando via il fumo di una pipa.
Mi spiace contraddirla, signor Holmes, ma non è questo il motivo” ribatte Inetto, in tono monocorde “Se vi ho chiamati tutti qui, dalle vostre legittime dimore, è perché siamo di fronte a un delitto mai visto prima. Perché la vittima, che vedete dietro quella poltrona, è la signora Jessica Fletcher”.
Un momento di silenzio, sorpresa, o semplice constatazione, finché una voce tremula non prorompe: “Jessica?!?
A parlare è stata lei, la vecchina che finora neanche per un minuto ha interrotto il suo lavoro a maglia: per la cronaca, la sciarpa – o la metà di essa – adesso giace a terra insieme ai ferri da lavoro, che hanno rischiato nella caduta di moltiplicare il numero di vittime nella stanza.
Comprendo il suo cordoglio, Miss Marple. Conosceva bene la vittima?”
La vecchina singhiozza, tamponandosi gli occhi con un fazzoletto. Accanto a lei, uno strano ometto calvo dalla testa a uovo e baffi perfettamente pettinati all'insù le batte piano una mano sulla spalla. Non si assomigliano, eppure devono essere parenti. “Oh Hercule, com'è possibile...” gli sussurra lei, prima di rispondere all'ispettore: “Se la conoscevo bene? Ci vedevamo ogni giovedì. Proprio domani dovevamo andare all'annuale Cena con delitto del club Investigatrici over80”.
Eppure so che ultimamente avevate avuto delle rivalità, e proprio a causa di quel club. Entrambe in lizza per il ruolo di Presidentessa, giusto? E la defunta era la più quotata”.
Miss Marple si imporpora un attimo. “Cosa c'entra, con tutte quelle sue apparizioni in TV, siamo capaci tutti... io ho solo i libri, e chi legge più oggigiorno?”
Non parliamo di TV, vi prego” interviene nuovamente Mr. Holmes “Mi stanno millantando per tutti i versi. In una versione faccio a pugni come un volgare attaccabrighe, in una vivo in non si sa quale epoca, in un'altra, pensate, il mio povero Watson è una donna, cinese per di più. Non che avere un'esotica assistente mi dispiacerebbe...”
Io invece mi trovo bene con mon ami Hastings” interviene Hercule, suscitando nell'altro un sorriso malizioso.
Capisco. Nounours1, come tutti i francesi...”
BELGA!!” strilla l'ometto, rosso fino alla punta della calotta cranica “Mi chiamo Hercule Poirot e sono belga, non francese”.
Mr.Holmes sorride all'accusa non negata, e il suo sguardo annoiato vaga attorno. “Non che mi interessi, ma cosa ci fa un bambino sulla scena del crimine?”
Solo allora gli astanti notano il ragazzino asiatico con occhialoni, frac blu e papillon rosso che esamina la stanza in ogni centimetro. Vedendosi osservato, si alza in piedi: “Il mio nome è Conan, e sono un super-detective!”
Il gemito di esasperazione nei presenti è interrotto da un improvviso scampanellio, segue lo stridio di una frenata, infine la porta si spalanca: abbronzato, prestante, con capelli biondi e l'aria da surfer californiano, fa il suo ingresso un uomo, sorprendentemente in abito talare. “Sono corso appena ho saputo” annuncia con aria grave.
L'ispettore tira un sospiro di sollievo. “Don Matteo, la aspettavamo. Anche lei conosceva la vittima, giusto?”
Ma certo. Jessica mi aiutava nella gestione della parrocchia”
E forse qualcosa di più. Secondo alcune indiscrezioni, la signora suggeriva alle famiglie delle vittime che conosceva – ed erano molte – la vostra parrocchia per le onoranze funebri...un bel guadagno, immagino”.
Ed io, di grazia, come sarei coinvolto?” interviene Holmes, che sovrasta Inetto di diversi centimetri e punti QI.
Stavano per cancellare una sua serie tv per riproporre le repliche di Jessica” replica l'ispettore, leggermente in soggezione “E lo stesso vale per il super-detective bambino, laggiù. E Poirot...” esita un attimo, poi con un sospiro continua “aveva una relazione con lei”.
Hercule!!” strilla la Marple, impallidendo: in compenso, l'ometto arrossisce per due.
Non era niente di serio, Jane. Te lo avrei detto dopo la nomina della Presidentessa, sai, sei così tesa per quell'elezione...”
Insomma” prosegue l'ispettore, alzando la voce sopra il momentaneo trambusto “ognuno di voi aveva un motivo per eliminare la sig.ra Fletcher, e di sicuro le conoscenze investigative per dissimularlo”.
Silenzio. Tutti i presenti guardano l'ispettore Inetto con aria di divertito compatimento. Povero, povero omino. Perché il problema, vedete, è che loro sono davvero le menti più brillanti del pianeta. E appena entrati nella stanza, hanno già risolto il caso.
L'esordio, ovviamente, spetta al noncurante Holmes. “Vedete, la posizione delle dita della vittima implica che prima di morire stesse stringendo qualcosa...”
...nello specifico, un filo da pesca” continua Conan “Un classico. Guardi i solchi sui polpastrelli, e poi ecco, quel segno di scotch sull'intonaco del soffitto”.
Don Matteo sospira: “Per poter scivolare via dalle sue mani, il filo doveva essere legato a qualcosa di pesante, che nel tragitto ha lasciato delle tracce, sbeccature su quel divano e infine sulla libreria”
Poirot si avvicina al mobile. “Basta attivare un po' le celluline grigie per notare che la prima fila di libri è più avanzata delle altre, creando così un vano...”
...dove possiamo trovare l'arma del delitto” conclude Miss Marple, scostando i volumi “Quello è il suo ferro da cucito”.
Tutti tacciono, e il povero Inetto osserva allibito il contenuto del nascondiglio. “Mi state dicendo che... è un suicidio?”
Conan sospira, Don Matteo scuote la testa, Holmes si stringe nelle spalle, è abituato ad essere circondato di inetti, con o senza maiuscola.
L'ispettore avanza, prende la lettera nascosta nel nascondiglio, e ad alta voce legge:

Per diventare Presidentessa dovevo risolvere un ultimo omicidio...il mio.
E ora rosica pure, Jane Marple: l'investigatrice over80 più famosa del mondo sarò io.
Per sempre”




1Omosessuale anziano, in francese.


∼ Marta∼






mercoledì 8 luglio 2015

[L'sW] - La giraffa rosa






Una giraffa rosa ecco cosa vorrei. 
Io sono bimba piccola e non ho pensieri importanti. Ma un desiderio grande sì, questo qui della giraffa rosa. Sarebbe la mia migliore amica e la farei dormire con me. Quando vuol stare da sola o litighiamo allora potrebbe stare nel mio armadio bianco con i fiori colorati. C’è un buon profumo dentro, ci starebbe bene la giraffa. 
Piace anche a me starci, dentro l’armadio, quando mamma e papà litigano e urlano. Lì, al buio, le botte che mamma prende sembrano quasi che possano farle meno male. 
Ma l’ultima volta, quando lei è venuta a chiamarmi, aveva la bocca rossa e non era marmellata di mirtilli, lì ho capito che le botte erano state proprio forti davvero. E’ stato lì che le ho chiesto se anche lei voleva nascondersi nel mio armadio bianco con i fiori colorati. La mamma mi ha abbracciata forte e mi ha detto che avremmo dovuto trovare un armadio più grande per tutte e due, così oggi siamo andate a cercarlo, io e lei, zitte senza dirlo a papà. 
Questo è il nostro segreto, ed è divertente. 
Mamma mi ha promesso che presto tutto cambierà e che potrò avere anche la giraffa rosa. Già mi immagino i pomeriggi a giocare con la mia giraffina. Era proprio tanto che la volevo e ora questo sogno si avvera. 
Già so che la chiamerò Flora. 
Sono felice e sorride pure lei, la mia mamma. 
Però non capisco… perché, per cercare un armadio, bisogna portarsi dietro tutte queste valige? Sarà perché forse dobbiamo vedere se ci stanno tutti i vestiti più noi dentro, per comprarne uno buono? 

Questo racconto fa parte della raccolta "Incontri metropolitani" leggibile gratuitamente on line a questo link

∼ Loriana ∼






mercoledì 17 giugno 2015

[L'sW] - Caffé bollente





Anche questa volta il maledetto si porta addosso la scia del suo profumo, un profumo forte, pungente, disgustoso. Sì, perché ora mi tradisce con quella donnucola esaurita, che poi è una delle clienti del nostro negozio di bricolage. Ultimamente aveva sempre problemi con il materiale da dover tornare a cambiarlo. Roba di tubature, mi diceva lui. Più roba da sifone e stantuffi, ho pensato io e infatti non sbagliavo: lui mi tradisce e io sto subendo tutto questo da troppo. Così, appena il maiale entra in cucina, mentre sto preparando la frittata, lo assalgo furibonda. E lui che fa? Conferma e mi chiede di capirlo, in fondo – dice lui – mi ama, ma la passione tra noi si è assopita da troppo. Con l’altra invece – dice – fa scintille: sesso sfrenato e ore di goduriosi amplessi; ma sostiene che è solo sesso perché in fondo ama me.

Resto interdetta. Non mi aspettavo questa svolta inaspettata, perché con Antonio è sempre andata così: ciclicamente mi tradisce, si sollazza per qualche settimana ma poi torna sempre e fare pace è ancora più divertente, anzi il sesso – dopo – è sempre più intenso e appagante. Ma questa volta è diverso: lui ammette il tradimento, dice che mi ama ma anche che non sa decidersi tra me e l'altra. Mi chiede così di non assillarlo con la mia gelosia. Ok, se me lo voglio tenere, accetto, decido. Non so dove mi porterà tutto questo, ma so che adesso lui, colmo di desiderio, mi prende da dietro e, strappandomi le mutandine, mi possiede lì, davanti ai fornelli, con amplessi colmi di passione e grugniti di piacere. Ovviamente la frittata si è bruciata, ma ne ho fatta un’altra senza problemi, tanto sono felice. E' tornato da me!

Ma l'indomani questa certezza si sgretola quando mi annuncia che sta per uscire con l’altra. Il deficiente! E io mando giù la pillola, sperando solo che quell’altra non lo faccia godere quanto me... perché con me ieri, il pezzente, ha goduto parecchio, quando mi ha sbattuto contro il frigorifero, affondandomi il viso tra lo strofinaccio e la presina, mentre entrava e usciva dentro me e mi alitava sul collo con respiri spezzati!

Lo lascio andare, certa che l'altra non lo soddisferà quanto me... Invece, quando torna mi racconta senza pietà i particolari del suo incontro: l’ha messa sul tavolino in cantina e l’ha penetrata piano mentre lei mugolava forte e l’eco dei suoi amplessi è rimbalzato per tutte le scale, facendo uscire qualche vicino curioso. Poi, dopo esser arrivati al piacere estremo, sono rotolati sul pavimento tra damigiane di vino rosso e qualche ragnatela. Oddio, è stata più brava di me penso.. quindi, arrabbiata e ferita, lo interrompo e lo cavalco come un’amazzone per tutta la notte. Lui grugnisce di piacere quando gli strizzo i capezzoli tra i denti. I miei sforzi sono ripagati perché viene dentro di me, di nuovo. Ho vinto io!, mi ripeto soddisfatta.

Ma anche questa la vittoria è di breve durata. Il giorno dopo lui ha l’ardire di portarla in casa e, mentre io sono in cucina a preparare il caffé – che non mi si dica che non sono ospitale – sento degli strani sospiri provenire dallo sgabuzzino... i rumori sono inequivocabili: spinte ritmiche contro il muro sempre più veloci e ansimi gutturali che giungono a me anche attraverso le pareti. Mi guardo attorno per un attimo ancora confusa, poi ritorno nella realtà: io in cucina a fare il caffé mentre quei due sono a scopare senza ritegno nello sgabuzzino. Ma cosa sto facendo? Ho davvero accettato una situazione così umiliante, illudendomi che tutto questo mi avrebbe fatto stare bene?

Un fremito mi pervade quando finalmente riesco a darmi la risposta. Quella giusta.

Qualche istante dopo sono a offrire ad entrambi il caffé con un sorriso di convenienza. Poi, inaspettatamente, apro la porta di casa e li invito ad andarsene.

“Fuori da casa mia!” comando. “Tra di noi è finita” annuncio a mio marito, “non tornare più a casa” concludo, sbattendogli la porta in faccia. Un saluto liberatorio.

Mi affaccio e li vedo discutere animatamente fuori dal portone. Attendo pochi istanti, poi vedo lei piegarsi in due accusando un dolore al basso ventre. Pochi secondi dopo è il turno del pezzente, che ora si contorce sul marciapiede urlando.

Vado in bagno a prepararmi per uscire, mentre pochi minuti dopo, la sirena annuncia l’arrivo dell’ambulanza chiamata certamente da qualche passante caritatevole.

Guardo allo specchio la mia immagine riflessa e ci vedo una donna nuova che, con una strana luce negli occhi, sogghigna all'idea di quei due alle prese con gli effetti dolorosi e imbarazzanti dell’intossicazione acuta da guttalax, tra miasmi e espressioni rivoltanti... degna chiusura di sipario per questa storia di m....

∼ Loriana ∼





 

venerdì 22 maggio 2015

Degli dei e di altri demoni- Mnemosine

A cura di Alessandra Nitti



Favole, miti e leggende del mondo del fantastico, tra letteratura e arte. Viaggi vituali e reali d'evasione... tutto in una pagina: questa!



Se mi chiedi quali sono stati i miei grandi libri, sono stati i viaggiatori del passato, ho sempre viaggiato con loro, erano i miei migliori compagni di viaggio. 
Tiziano Terzani


Degli dei e di altri demoni
Mnemosine


Vedete questa foto? Quella.... quella ero io, tanto tempo fa. Non c'è molto da ricordare di quel periodo, a volte i miei pensieri sfumano via e mescolo realtà e sogno. La mia mente non è più quella di una volta, non sono più sveglia come lo ero allora. Guardatemi, ero carina e giovane. Avevo il viso imbronciato, pensavo che mi facesse più bella quell'espressione, ma dentro di me sorridevo. Sorridevo perché ero felice e viva. Semplicemente.
Avevo una grande passione per la fotografia, non mi staccavo mai dalla mia Canon regalatami dai miei genitori il giorno della laurea. Laurea... il risultato di anni sprecati dietro banchi accademici. A cosa mi sarebbe servito quel foglio? Io volevo essere una fotografa, vedere le immagini prendere vita sulla carta. Questa foto qui, ad esempio... Non vedete i granelli di polvere vorticare fra le macerie? Non sentite l'odore di umido e distruzione che emana? Se mi rispondete di no significa che non sono riuscita nel mio intento, ma scommetto che la vostra risposta è positiva. Non lo nego, ero talentuosa.
Foto di Jolly 78 tratta da Minimee

Questa foto è stata scattata in una tiepida serata di luglio, poco dopo la mia laurea. Mi infilai in macchina e partii, una canzone rock fuoriusciva dalle casse, il vento fresco mi accarezzava il viso. Il sole era basso e luminoso, tingeva il mondo di arancione, il mio colore preferito. La strada si stendeva solitaria di fronte a me: era l'ora della partita dei Mondiali, in giro non c'era nessuno e godevo di quel momento. Il mondo era mio. La macchina fotografica, fedele compagna di viaggio, giaceva sul sedile accanto al mio. Non sapevo bene cosa fotografare, sapevo solo che l'ora del tramonto era la migliore per le foto. Gli donava quel fascino particolare e un tocco di classicismo che non stanca mai. Dopo un po' mi resi conto che non c'era bisogno di andare lontano: la mia città era una distesa di grigie macerie illuminate dal sonnolento sole serale. Pochi anni prima un terremoto aveva distrutto la mia terra, mangiato uomini e case. Da allora la situazione non era migliorata di molto: da anni vivevamo nel ricordo dei morti e di una vita sfasciata da quelle scosse. Non riuscivamo ad andare avanti. Avevamo salvato i nostri amici con le mani e ora... ora sembrava che la mia città fosse ancora nel pieno di quell'inferno.
Volevo fotografare, volevo mostrare ai posteri le condizioni in cui eravamo, senza aiuto da parte di nessuno. Fermai la macchina di colpo, girai la chiave e la musica cessò. Afferrai la macchina fotografica e me la infilai al collo. Mi avvicinai a una casa diroccata. La natura continuava placida il proprio corso e rampicanti ed erbacce coprivano la facciata, si infilavano nelle finestre, sbucavano tra le tegole del tetto semi crollato. Mi ricordo di quella villetta, vi vivevano due anziani signori benestanti. Lei era morta sotto il crollo del soffitto, lui di crepacuore durante gli infiniti funerali che si erano svolti in quei giorni. Attraversai il giardino colmo di calcinacci e raggiunsi la porta, che si teneva su solo grazie a uno dei possenti cardini. Presto anche quello avrebbe ceduto. L'aprii con cautela. Avevo paura che qualcuno sbucasse fuori dal nulla, un drogato o un barbone. Feci qualche passo e fui investita dall'odore acre della muffa e da quello pungente dell'umidità. Guardai un'ultima volta oltre il portone d'ingresso, il sole scendeva lentamente, dovevo muovermi se volevo catturare gli ultimi raggi rossastri che penetravano tra le finestre aperte e illuminavano le macerie. Non c'era molto, immaginai che tutta la roba salvatasi fosse stata vittima degli sciacalli. C'erano solo alcune sedie sfondate e un sofà pieno di polvere e con l'imbottitura che usciva da vari squarci.
Salii al piano superiore e trovai la camera da letto. C'erano ancora la rete del letto, un armadio e una sedia imbottita, quella che vedete nella foto. Un ampio balcone lasciava entrare i raggi serali. La luce era perfetta. Scattai un paio di foto all'ambiente. Chissà se le avrei mostrate al mondo o se le avrei conservate per i miei nipoti, così che sapessero che la loro città, anni prima, era stata devastata da forti scosse per lunghi giorni pieni di morte e di paura. Guardai il risultato nello schermo: non mi piaceva. Mancava qualcosa. Ma cosa? Dovevo affrettarmi, il sole ora aveva già iniziato a nascondersi oltre l'orizzonte. Poi capii: ero io l'elemento mancante. Anche io un giorno sarei stata solo un ricordo di quella città, del terremoto, un granello di polvere persa nell'immensità del mondo. Posizionai la macchina fotografica sulla rete e presi l'inquadratura. Poi posi la sedia davanti all'obiettivo e mi sedetti al contrario. Imbronciai il viso.
5...
4...
3...
2...
1...
Click
Il sole sprofondò, lasciando che il mondo si tingesse di blu. Uscii in fretta dalla casa, non volevo star lì di notte a sentire l'ululato del vento e i ricordi di un dolore passato. Mi infilai in macchina e accesi lo stereo. Con il vento che mi accarezzava il viso, tornai a casa mia.
Decisi di conservare l'immagine per i miei nipoti. Ora che sono passati decenni da quel maledetto terremoto e la città è stata finalmente rimessa a nuovo, i miei ragazzi devono sapere quello che successe. Io li aspetto ogni sabato, quando mi ricordo che è sabato. Si siedono accanto al mio lettino dalle lenzuola candide e poggiano sulle mie ginocchia una scatola magica, che io apro come se fosse un regalo di Natale, e inizio a sfogliare le foto. I ricordi della mia gioventù si fanno spazio tra la nebbia della malattia che mi opprime la mente e cominciano a danzare attorno ai miei occhi. Con un dito indico i dettagli, le tecniche, le emozioni e gli odori di ogni foto, racconto ai miei nipoti le storie che vi sono dietro e loro sono felici di sentir parlare di un mondo che non c'è più.

La mia foto preferita rimane quella scattata in quella serata di luglio di tanti anni fa, che mi ritrae bella e giovane in un mondo distrutto. La tengo sul comodino, in una cornice, così che, ogni volta che i miei ricordi fuggono via spinti nell'oblio della malattia, io possa rimembrare la mia giovinezza.




mercoledì 20 maggio 2015

[L'sW] - I 23 secondi in cui la terra tremò







Mi ridesto che è già sorta l’alba. La luce ha iniziato a illuminare il mondo, definendo paesaggi e oggetti che prima erano solo un’ombra indistinta attorno a me. Mi guardo intorno stupita, osservando la strada che ho di fronte, sinuosa curva di asfalto percorsa ai lati dal verde di questa terra. Il bosco è appena più in là.

Faccio qualche passo e vengo investita da una folata di vento che fa alzare una nube di polvere bianca e sabbiosa; questa m’avvolge e s’avviluppa anche attorno alla vegetazione. C’è un silenzio irreale, quasi statico, ovattato.

Ma dove sono? Sì, ora ricordo…

Sono uscita quando la terra ha smesso di tremare, appena dopo il boato e la polvere. Un terremoto. Per 23 lunghissimi secondi la terra è stata solo un rombo arrivato dalle viscere del mondo, a inghiottire case, strade, ponti, gente, vite.

Mi volto e riconosco a fatica, oltre gli alberi alla mia destra, quella che era la mia casa in affitto da studentessa fuori sede. L’edificio è crollato per metà: un ammasso di cumuli di macerie e ferro, si mantiene eretto quasi per miracolo, il tetto è sfondato, la porta è divelta ma ancora attaccata ai cardini, forse sorretta dall’intrico di rampicanti che le erano attorno da ornamento.

Presa da un’irrefrenabile necessità, senza pensare alle conseguenze del mio gesto, mi addentro in casa. Oltrepasso la cucina, i pensili distrutti con le ante aperte, scatole di tonno e altro cibo in terra; il tavolino, ancora intatto, ricoperto di calcinacci.

Il corridoio è attraversato da crepe, arzigogolate decorazioni nel muro come arabeschi terribili disegnati dalla terra che trema.

La stanza di Maria e Alberto è un caos di cose rivoltate, ma almeno loro non erano in casa perché partiti proprio ieri per un week-end dai genitori. Non guardo oltre, supero il bagno e, senza perder ulteriore tempo, sono davanti alla porta della mia camera che non c’è più. E’ infatti nella parte della casa crollata, il tetto scoperchiato è uno squarcio spalancato verso il cielo. La parte sinistra della stanza è sparita, i mobili sommersi da mucchi di cemento, il mio letto è sotto di essi. C’è ancora fumosa polvere che aleggia nella stanza, pulviscolo che s’espande oltre il bosco, un bosco che ora è spaventato spettatore, assieme a me, del disastro che regna qui dentro.

Mi siedo affranta sulla sedia della mia scrivania, unico suppellettile sopravvissuto, il gomito appoggiato allo schienale, la testa sorretta dalla mia mano, in un patetico gesto di consolazione che a nulla serve, visto che continuo a guardarmi attorno in questa desolazione.

I miei vestiti, i miei libri, lo stereo… tutto è stato inghiottito! Provo a spostare le macerie in cerca di qualcosa di mio, ma trovo solo altro cemento, altra sabbia, altra polvere che s’infila nel mio respiro e mi fa venir da piangere. Non c’è più niente che mi appartenga in questo luogo, né gli appunti per la tesi, né il computer, né oggetti personali. Nulla, a parte quello stupido specchio ancora attaccato all’unica parete rimasta in piedi, beffardo o ostinato, non saprei dire. Ci guardo dentro e vedo solo mura crollate, disperazione e morte, nient’altro. D’improvviso un’intuizione mi pervade e il respiro s’interrompe. Il corpo diventa rigido, pietrificato, così come lo è già tutto il resto attorno a me. Getto di nuovo lo sguardo nello specchio e, nel riflesso che m’appare nell’angolo a sinistra, vedo un lembo di stoffa spuntare da sotto le macerie. Il mio pigiama, lo stesso che indosso ora…

Presa da una furia cieca inizio a scavare con le mani, senza accorgermi che non afferro niente, tranne l’aria. Ed è lì allora che comprendo, comprendo davvero ciò che è successo.

Un pianto di rabbia e incredulità mi scuote improvviso.

Per 23 lunghissimi secondi la terra ha tremato e ha inghiottito case, strade, ponti, gente, vite. Tante vite. Anche la mia.


[dedicato alla gente de L’Aquila e alla popolazione dell’Emilia]



∼ Loriana ∼






domenica 3 maggio 2015

Precarientola - favole in tempo di crisi

C'era una volta, in un Paese non troppo lontano, una fanciulla di nome Precarientola. Era una ragazza semplice e di buon cuore, al contrario delle sorelle Anasteja e Genuflessa. 
La prima aveva fatto successo partecipando a un famoso magic-show in cui, più che per le doti canore, era emersa per lo striptease estremo condotto sul palco. 
Genuflessa, invece, aveva fatto carriera nella politica, arrivando ad essere segretaria personale del Ministro della Magia. Qualcuno malignava sui metodi poco ortodossi con cui si era guadagnata quella posizione, ed alludeva a posizioni ben più equivoche da lei assunte per ingraziarsi i politici. 
In tutto ciò, Precarientola, invece, era il disonore della famiglia: dopo contratti, CoCoCo, CoCoPro e CoCoDè mai riconfermati, si era ridotta a fare le pulizie nella magione di famiglia - senza ferie, contributi o giorni liberi - sotto l'occhio critico della matrigna. 
“Sei proprio senza ambizioni” le diceva sempre, da ex- ballerina che si manteneva grazie al defunto marito “Guarda le tue sorelle, come sono realizzate! Tu, invece, dovresti ringraziarmi se ti permetto di lavorare per me”. 
Ma la peggiore costrizione, più delle cerette inguinali alla villosa Anasteja o dell'unguento sulle ginocchia infiammate di Genuflessa, era la trasmissione Principi&Fate. Anche quel giorno fu costretta ad unirsi a loro di fronte alla magivisione, dove una fatina tutto pepe, indecisa tra due fustacchioni con le sopracciglia depilate, scelse infine il più biondo e stupido tra i due.
- Vuoi esseve anche tu fata pev un giovno? - concluse la conduttrice, un essere magico con corpo di donna e voce di uomo – Pavtecipa oggi stesso ai pvovini di Pvincipi&Fate e conquista il tuo pvincipe azzuvvo! -
E all'improvviso, in mezzo al salotto, comparve l'ologramma di un principe seminudo, con magnetici occhi azzurri, folti capelli ondulati, fisico scolpito: ogni suo poro sembrava emanare virilità, mentre con sguardi languidi ammiccava alle presenti. Il tempo di risvegliarne la libido e nebulizzare definitivamente ogni neurone femminile e il principe azzurro sparì, lasciando nell'aria un invitante odore di dopobarba e muschio bianco.
“R-ragazze, dovete partecipare” sancì la matrigna, ancora in subbuglio.
“Oh sìììììììììì mamma!” strillò Anasteja, incrinando i vetri del primo piano “La manager sarà felicissima, la mia immagine era in calo”.
Anche Genuflessa, inginocchiata (ormai per abitudine) di fronte alla tv, era entusiasta. “Potrebbe essere una mossa politica interessante. E poi insomma, sarà pure ora di invertire le parti”.
Precarientola nel frattempo era rimasta ammutolita: quello sguardo misterioso e provocante aveva risvegliato in lei emozioni mai provate. Dopotutto, nella sua austera vita non aveva modo di conoscere uomini, se non quel tontolotto di Pier, il fattore, che si ostinava ad invitarla a cena nella sua stalla.
Mentre lui... lui... arrossì, pudica, a quei nuovi istinti e senza neanche accorgersene si ritrovò a pigolare: “Vorrei partecipare anch'io.”
In un istante le tre donne nella stanza tacquero, si guardarono, infine scoppiarono a ridere.
“Precarientola, ma che vai dicendo!”
“Tesò, ma ti sei vista? Sarai almeno una 44!”
“Non hai neanche lo shatush, poi. E quelle labbra naturali!”
Proseguirono a lungo, smontando ogni singolo componente del suo corpo e della sua autostima, finché la matrigna, accantonando la questione con un leggero svolazzo della mano, decretò: “Tu starai a casa, non sei fatta per quegli ambienti chic. Invece pensaci, con Pier ti vedo bene...a lavorare nella stalla!”
Tra risate beffarde, corse su per le scale, nella sua stanzetta in soffitta, e si buttò singhiozzando sul pagliericcio. Non era giusto. Lei non era da meno delle sorelle, anche senza labbra rifatte e lo shatush, qualunque cosa fosse. E perché doveva rinunciare a quel gran pezzo di... cioè, a quel bellissimo principe?
Sentiva al piano di sotto il vocio eccitato delle sorelle che si preparavano, il ronzare furioso del silk-epil e gli strepiti della madre. Quella sera sarebbero andate ai provini lasciandola lì, in quella soffitta puzzolente, circondata di topi...
All'improvviso un bagliore azzurro la accecò, rivelando una meravigliosa donna celestina, con ali e bacchetta magica.
“C-chi sei?” esclamò la fanciulla spaventata.
“Io sono Fata Presepia” rispose con voce suadente e accento spagnolo “Sono la fata dell'estetica e del bell'apparire, e sono qui per aiutarti”.
“Davvero puoi? Io...io vorrei partecipare ai provini di Principi&Fate!”
Presepia inorridì. “Con quei capelli? E amore, non vorrei dirti, ma hai dei fianchi...”
L'altra chinò il capo: “Aiutami ad essere come loro, come te! Rendimi bellissima”.
Con un sorriso di Presepia e un frullio di bacchetta, l'incantesimo si compì: di colpo i suoi capelli divennero bicolori, le sue curve scomparvero, le labbra si gonfiarono come canotti e le spuntarono due bocce così. Con le ultime scintille di magia colpì due topolini, che diventarono un dj e un rapper tatuato, e una zucca nel cortile, trasformata in hammer rosa shocking.
“Vai, presto! Se entro mezzanotte conquisterai il principe resterai così per sempre”.
Precarientola corse via, e in un baleno fu ai provini. Le concorrenti c'erano tutte, comprese Anasteja, con un tatuaggio nuovo di zecca, e Genuflessa, vestita da professoressa sexy.
E anche lui era lì, in carne e testosterone, beato tra quella moltitudine ormonosa: ancora più bello di quanto non fosse apparso in video.
Il dj fece partire una musica assordante su cui il rapper ricamò rime inneggianti a Precarientola: e la fanciulla, ancheggiando, arrivò di fronte al principe, che la guardava famelico.
“Ciao, Pupa” mormorò, facendola fremere.
“Ciao principe!” trillò, con la voce più alta di due ottave per l'emozione.
“Ciao, Pupa” disse ancora, con la stessa espressione.
“Ehm...ciao, principe”
“Ciao, Pupa”
“Sì, principe, ciao anche a te...potremmo andare oltre i reciproci saluti?”
Ma quella meraviglia della natura sembrava essersi incantata. “Ciao Pupa, ciao Pupa, c-ciao Pu...”
“Oh, uff, di nuovo!” Un frullio azzurro e fata Presepia comparve accanto al principe inceppato, che continuava a blaterare. Con un unghia smaltata iniziò a pigiargli la nuca: “Ehi! Ehi smettila! Smettila! Oh, non mi lasci altra scelta...”
Corrucciata, gli puntò contro la bacchetta magica: un sonoro puf, una nuvola di fumo, e il principe si dissolse, rivelando...
“Pier?! ”
“Esatto” sospirò Presepia “Anche lui mi ha invocato, voleva riuscire a conquistarti...se ce l'avesse fatta entro mezzanotte, sarebbe rimasto così per sempre”.
La fanciulla guardò il suo eterno spasimante con nuovi occhi, e solo allora capì l'amore che provava per lei. Si chinò per baciarlo, ma alla vista delle sue labbra gonfie lui si sottrasse.
“Aspetta! Anche per te valgono le stesse condizioni? Resterai così?”
“Sì, se mi baci entro mezzanotte”.
“Allora” rispose Pier, guardandole il viso trasformato “credo proprio che aspetterò un po'. Intanto che ne dici di quella famosa cena nella stalla?”

Una volta riacquistate le sembianze normali, i due si sposarono: Pier la prese nella propria fattoria, che sotto la sua guida divenne una florida azienda agricola. Da quel giorno Precarientola prese il nome di Assunta, e vissero felici a tempo indeterminato.



∼ Marta∼











mercoledì 22 aprile 2015

[L'wW] - Romana di Ostia





Povera son sempre stata e sempre lo sarò pure se mi spezzo la schiena di lavoro, a pulire scale e condomini. Non vivrò mai serena, l’ansia della terza settimana me la porterò dentro finché campo. 
Sfortunata certo sono stata, un marito che è più dentro che fuori di galera, buono a farci niente, ubriacone molesto che preferisco stia via, almeno non mi mena. 
Io sono sempre stata precisa e onesta, eppure non mi è riuscito di crescere su i miei figli come me, tutti del padre hanno ripreso. La femmina che vuol fare la modella e torna tardi la sera perché, dice lei, in discoteca incontra i manager importanti, di quelli che fanno diventar famosa la gente, i talent scaut si chiamano. Gli altri due, i maschi grandi, che sono dei ladruncoli di mezza tacca, bravi solo a ricalcare le orme del padre. L’unico che mi fa tenerezza è quello piccolo che sembra non voler crescere mai, forse perché ha già capito quale futuro lo attende e preferisce scartar di lato. Mi fa pena quando lo guardo, perché non riesco a dirgli che prima o poi toccherà pure a lui, che la vita arriverà di botto e in modo crudele a dirgli che non c’è salvezza per noi che siamo destinati a una vita da piccola gente. 
Io l’ho capito da tanto, che son destinata a viver di patimenti, sempre attenta a ogni euro, sempre piegata a pulire, sempre in giro con la mia tuta da ginnastica nera a righe bianche e i maglioncini acrilici da pochi euro della bancarella. 
Una volta ero bella, ora il mio viso è scavato dalla stanchezza, sembro vecchia e ho poco più di quarant’anni. 
Troppo spesso mi scambiano per rumena, quando io sono romana, romana de Ostia. 
Sarà che la povertà imbruttisce e in questo diventiamo tutti uguali, tutti dello stesso paese: il paese dei poveracci, come me, che hanno gli occhi spenti e nessun futuro diverso da sperare.

Questo racconto fa parte della raccolta "Incontri metropolitani" leggibile gratuitamente on line a questo link

∼ Loriana ∼






venerdì 17 aprile 2015

Degli dei e di altri demoni - Alfeo

A cura di Alessandra Nitti



Favole, miti e leggende del mondo del fantastico, tra letteratura e arte. Viaggi vituali e reali d'evasione... tutto in una pagina: questa!



Se mi chiedi quali sono stati i miei grandi libri, sono stati i viaggiatori del passato, ho sempre viaggiato con loro, erano i miei migliori compagni di viaggio. 
Tiziano Terzani


Degli dei e di altri demoni
Alfeo


Alfeo


Lisaweta era una puttana.
In piedi accanto alla finestra, osservava la neve vorticare oltre i vetri appannati. Espirò l'ultima boccata di fumo, poi spense la sigaretta nel posacenere, schiacciandola con forza. Guardò il mozzicone, così stritolato e con quella macchia di rossetto simile a sangue, agonizzante. Due colpi alla porta la riscossero dai suoi pensieri. Si sistemò meglio la pelliccia che le aveva regalato qualcuno anni prima, uno straniero in viaggio a Mosca.
Altri due colpi.
Lisaweta si avvicinò e fece scattare la serratura. Aprì la porta, una folata gelida si introdusse nella stanza, subito seguita da un uomo.
«Sei tornato, Sacha.»
L'uomo entrò senza rispondere, si ripulì il naso con la manica del pastrano consunto. Lisaweta lo guardò per alcuni istanti: Sacha sembrava parte dell'arredamento, o forse lo era davvero, vecchio e consumato, con i capelli biondi ingrigiti come la pelle da gran bevitore, aveva la stessa tonalità dell'intonaco crepato della stanza. Il fisico, sghembo e rotto, assomigliava vagamente all'armadio con l'anta penzolante per metà e al letto con una gamba più corta che traballava fastidiosamente quando Lisaweta lavorava. L'uomo fissò i suoi occhi grigi e iniettati di sangue sulla donna. Le si avvicinò, inondandola con il suo puzzo di alcol.
«Oggi è il mio giorno di riposo.» Lisaweta si ritrasse, rabbrividendo di ribrezzo. «E sono due mesi che fai credito.»
«Non ho soldi» si difese l'uomo, la voce ispida graffiò le orecchie di Lisaweta come carta vetrata.
««Allora va' via e torna quando avrai di che pagarmi.» Indicò con una mano la porta.
L'uomo non si mosse, rimase lì a guardarla con la bocca aperta, sperando che Lisaweta cambiasse idea. Si portò una mano sui calzoni, toccandosi lievemente.
Lisaweta si avvicinò alla finestra e si accese un'altra sigaretta, decisa ad ignorare l'uomo. Due coraggiosi passanti attraversarono la strada gelata di quella mattina di novembre. Sentiva lo sguardo ansioso di Sacha bruciarle la nuca, i passi strascicanti dell'uomo avvicinarsi a lei. Non la toccò, si sedette di fronte a lei e si abbassò i pantaloni, senza smettere di accarezzarsi.
Lisaweta fumava, nervosa: le faceva ribrezzo quell'uomo e le faceva ribrezzo la propria vita. Eppure provava compassione per entrambi.
La giovane e bella Liza, piena di vita e serena, amata da molti, era stata strappata dai suoi sogni di bambagia. Confusa, aveva iniziato a disprezzare la vita, a odiarla, con amarezza e disillusione aveva colto l'inutilità dell'esistenza.
Si era ritrovata in quella stanzetta del terzo piano che puzzava di fumo e di sesso, con l'intonaco che si staccava dalle pareti e le piastrelle del pavimento che si spaccavano per il freddo. Guardò Sacha, anche lui una volta era stato bello e giovane ed era stato strappato via dai suoi sogni. Ora non poteva neanche più permettersi una puttana. A Lisaweta fece pena. Spense la sua sigaretta proprio mentre Sacha veniva sulle sue stesse mani. Lei li guardò entrambi, il mozzicone di sigaretta e il mozzicone di uomo. Sacha aveva consumato la sua vita e si era ritrovato tra le mani solo cenere attorno a quel corpo bruciato dagli anni, dai vizi e dai tormenti. L'uomo si ripulì velocemente ed uscì dalla stanza senza dire una parola, Lisaweta si avvicinò allo specchio e guardò la donna che vi era riflessa.
Le labbra piene curvate dall'amarezza erano tinte di rosso, la pelle liscia aveva una sfumatura giallastra, i capelli biondi legati in alto parevano sbiaditi, come la sua stessa anima, il collo era ancora alto e liscio, ma non sarebbe durato tanto. Presto sarebbe diventato grigio come le pareti di quella stanza, come le pareti della sua esistenza.
Forse poteva ancora salvarsi, lì, sul ponte.
Lì c'era la sua via d'uscita.
Corse fuori, avvolta nella sua pelliccia, consumata anch'essa, come tutto quello che la circondava. Corse per le strade della capitale, scivolò sul ghiaccio e cadde, si rialzò velocemente e continuò la sua folle corsa verso l'uscita di sicurezza.
Arrivò.
Sotto di lei il fiume era ghiacciato. Sapeva che se si fosse gettata da quell'altezza avrebbe frantumato il ghiaccio e sarebbe stata accolta dalle acque torbide e fredde. Per sempre. Si rammaricò pensando che avrebbe potuto portare con lei Sacha. Avrebbe potuto salvarlo dal grigiore. Dalla solitudine. Dall'amarezza.
Amara.
Così era stata la breve vita della bella Liza.

Si lasciò cadere giù, richiamata dalla dolcezza delle tenebre eterne.

 

sabato 28 marzo 2015

Volare dopo il disastro: cosa fareste nei vostri ultimi 8 minuti?


La tragedia dell'Airbus Germanwings ha profondamente scosso il mondo del web, sia per la portata dell'incidente, sia per le agghiaccianti dinamiche con cui si è svolto. Dalle registrazioni della scatola nera, oltre al disperato tentativo del pilota di riprendere il controllo, emerge che i passeggeri avevano capito a cosa stavano andando incontro. E mentre tutto il mondo piange le sue vittime, il pensiero va inevitabilmente a cosa devono aver provato quelle persone nel sapere di essere a pochi minuti dalla fine della propria vita.

Per quanto mi riguarda, dovendo prendere un aereo il giorno successivo e avendo avuto incubi su un disastro aereo la notte prima, l'immedesimazione è stata violenta e inevitabile. E così, mentre il mio aereo iniziava le procedure di decollo, questo interrogativo martellava prepotente la mia mente.

Cosa faremmo se capissimo di essere a pochi minuti dalla morte?

Mentre vedevo le luci di Roma rimpicciolirsi fino a diventare una suggestiva ragnatela, mentre l'adrenalina del decollo mi accarezzava lo stomaco e le mie labbra - lo ammetto - si plasmavano in una preghiera involontaria trattenendo il respiro, ho realizzato che il primo pensiero sarebbe stato il rimpianto. Per tutto quello che ancora sognavo di fare, per i miei progetti, per gli anni che ho ancora il diritto di vivere.

Diritto, poi? Quale legge non scritta garantisce che nulla di brutto possa accadere finché si è giovani? Il mio pensiero va alla famiglia che si è imbarcata con me. All'adorabile bambina che si divertiva come una matta con la lampo della felpa del padre. Alla giovane mamma che, nervosa, borbottava tra sé e sé: Certo che se tutto sembra dirci di non prendere questo volo, forse non dovremmo prenderlo, no? Forse non è destino. Ma no, non può mica accader nulla a chi ha tutta la vita davanti? E poi ripenso al bambino di 10 mesi morto in quell'aereo. E capisco che diritti non ne ha nessuno.

Poi il pensiero è andato agli anni trascorsi, alla vita che finora ho vissuto. Immaginavo cosa avrebbero potuto dire di me, a un mio ipotetico funerale. E ho sentito che, per quanto era in mio potere, avevo vissuto una vita piena, felice, che mi ero abbeverata a tutte le opportunità, che in ogni momento più o meno bello avevo comunque sentito la gioia di vivere.

Infine, ho pensato alle persone a cui voglio bene. E la morsa di gelo allo stomaco, la paura viscerale di fronte all'ignoto, la sensazione di ingiusto si sono un po' stemperate. La mattina l'avevo passata con la mia più cara amica, in deliziose chiacchiere di quotidiana complicità. Il resto della giornata con il mio fidanzato, che avevo salutato direttamente in aeroporto. E una parte di me si è detta che, se proprio doveva accadere qualcosa di brutto, era bello sapere di aver passato le ultime ore con buona parte delle persone a cui tengo di più.

L'aereo infine è atterrato senza problemi, com'era ovvio che fosse.

Eppure sono certa che, come me, tutti i passeggeri di quel volo e dei molti partiti dopo l'incidente Germanwings, quella domanda se la siano fatta. E che d'ora in poi vivremo ogni momento in modo un po' più consapevole.


∼ Marta∼